La battaglia per il tesoretto di AN

La battaglia per il tesoretto di ANI volti erano quelli di sempre. Certo, c’era qualche chilo in più addosso e qualche capello bianco di troppo in testa (come testimoniano le foto del grande paparazzo Umberto Pizzi), ma, d’altra parte, è così per tutti. Le cronache raccontano che, alla fine dei tiratissimi due giorni all’Hotel Midas di Roma per decidere che fare della Fondazione Alleanza Nazionale, Giorgia Meloni ha sconfitto Gianni Alemanno. Insomma, il simbolo rimarrà a Fratelli d’Italia, il resto si vedrà, ma è un fatto che l’ex ministro della Gioventù del governo Berlusconi ha sbaragliato l’ex sindaco di Roma.

Passo indietro con breve nota esplicativa: quando i partiti muoiono, raramente muoiono davvero. Spesso rimangono in sospeso simboli storici e tesoretti, così nascono le fondazioni per gestire il tutto mentre si cerca riparo altrove. Per dire, dentro al Pd si aggira un mitologico benché oscuro senatore chiamato Ugo Sposetti che continua a fare quello che faceva negli anni ’90, cioè il tesoriere dei Ds: si dice a questo proposito che il tesoro dei comunisti valga circa mezzo miliardo di euro, tra sedi, conti correnti e addirittura opere d’arte: c’è chi dice che il Pd non si spacchi in mille pezzi soltanto per questo particolare. Anche Alleanza Nazionale ha da parte un patrimonio da 220 milioni di euro, di cui 180 in beni immobili e 40 in liquidi. La partita è arrivata così al suo snodo decisivo, anche perché lo storico tesoriere, unico in grado di fare da garante per tutti, Donato Lamorte si è spento un anno fa, e il suo ricordo è stato l’unico momento in cui l’applauso è arrivato unanime da tutte le poltroncine.

Ecco, i camerati che furono, persi in una diaspora che dura da anni ormai, sono tornati a vedersi per decidere cosa fare sia dei soldi sia anche del marchio che dentro di sé contiene la mitica fiamma dell’MSI. Insomma, un gran casino. Per ora sarà Fratelli d’Italia a tenere il simbolo, mentre del patrimonio ancora non si sa bene cosa farne e quindi non si tocca almeno fino all’anno prossimo, quando la Meloni ha annunciato che convocherà il primo congresso del suo partito con l’obiettivo di «allargare a destra», qualsiasi cosa questo possa voler dire.

Lo scontro si è consumato alla vecchia maniera, cioè a colpi di mozioni e trattative serrate. Diversi militanti di antica data raccontano delle sulfuree conte notturne di An, quando chi si fermava era perduto e quello che era vero alle tre di notte poteva non esserlo più all’alba. A metà degli anni ’90, dopo la svolta di Fiuggi, si parlava insistentemente della nascita di uno schieramento di destra moderno e dal respiro europeo, molti ci credettero davvero. I congressi locali però li vinsero tutti (o quasi) i colonnelli, infliggendo pesanti batoste all’ala liberale che pure nel progetto finiano ci credeva. Ironia della sorte: alla fine della fiera con Fini ci sono rimasti solo i liberali, che infatti alle politiche del 2013 fecero prendere a Fli (do you remember?) percentuali da partito liberale: lo 0.5%.

Si diceva, le lunghe nottate. Sabato sera sembrava in vantaggio lo schieramento di Alemanno, messo in piedi con i vecchi camerati Italo Bocchino, Mario Landolfi, Carmelo Briguglio e Roberto Menia: le firme raccolte erano 293 su 490 delegati: maggioranza assoluta. Con il favore delle tenebre però, raccontano i soliti bene informati, si sarebbe mosso Ignazio La Russa che non solo ha portato con sé i forzisti Maurizio Gasparri e Altero Matteoli, ma ha anche sottratto voti alla mozione concorrente. Risultato: la linea di Fratelli d’Italia si è imposta con 276 voti, mentre Alemanno e gli altri sono rimasti con meno voti addirittura rispetto alle firme raccolte: 222. Terzo Nicola Bono, fermo a quota 212.

A questo punto le interpretazioni divergono. Gli sconfitti sostengono che la Meloni abbiano vinto agitando lo spettro di Gianfranco Fini, un personaggio che, almeno secondo l’ex deputato Marcello De Angelis,

«fa ancora molto paura a Gasparri e La Russa, perché ancora oggi prenderebbe molti più voti di loro».

Dall’altra parte si risponde che con la proposta di Fratelli d’Italia è stato respinto un esercito di quarantenni che voleva mettere le mani sul bottino, che adesso verrà utilizzato solo «per iniziative culturali», almeno fino a nuovo ordine.

Il resto è un passaggio tra le macerie degli ex camerati, e leggere in giro interviste e pareri di intellettuali e blogger di destra, disillusi, sconsolati e un po’ depressi. Umori e sensazioni che a sinistra sono ben noti, e non è un caso, infatti, che molti compagni solidarizzino con i camerati, cercando di spiegare loro quanto può essere dolorosa una condanna a bere sempre l’amaro calice mentre gli altri brindano a champagne.

Il blob delle dichiarazioni, per i feticisti del genere, è molto divertente. La giornalista Annalisa Terranova, tra il serio e il faceto: «Per miei studi rileggo “Le altre Gladio” di Giacomo Pacini e trovo l’origine del nome Fratelli d’Italia. Trattavasi di una stay behind sorta in Friuli nell’autunno del 1945 ad opera del colonnello Prospero Del Din e collegata all’Ufficio zone di confine del ministero degli Interni, il cui referente era Giulio Andreotti». Pietrangelo Buttafuoco, disincantato:

«La storia è alle spalle, si è concluso il fascismo e archiviato il postfascismo. Perché allora usare la fiamma e vederla barattata con l’ultima banalità pronunciata da Giulio Terzi di Sant’Agata, che non è certo Filippo Anfuso?».

Manca donna Assunta Almirante, che però nei giorni precedenti all’incontro romano aveva reso noto il proprio sostegno a Giorgia Meloni.

Sul blog Fascinazione di Ugo Maria Tassinari, uno di quelli che di queste cose se ne intende parecchio, già si prospettano vendette trasversali ed epurazioni. Staremo a vedere. A parte soldi e simboli, la destra italiana sta cavalcando nel deserto cercando di capire se morirà con la felpa verde di Salvini addosso o se davvero sotto la brace la fiamma brucia ancora. La situazione è a punto morto. E come sempre in ogni punto morto, c’è più vita che mai.

Mario Di Vito